Il Giardiniere
Si muove attento a non calpestare i suoi fiori il giardiniere. Li guarda uno ad uno, scovandoli tutti, anche quelli nascosti e si meraviglia per la velocità con cui nuovi germogli spuntano fuori. Ha allenato i suoi occhi per vedere fino a dove nemmeno il raggio di sole più lungo riesce a infilarsi. Le sue mani sono avvezze alla terra come pennello per il pittore. Valigetta, giacca e cravatta, scrivania sempre pulita, lavatina ai denti post-pranzo, gancino appendi cuffia da schermo, puntuale neanche a dirlo, testa lucida come palla da biliardo, impeccabile, sempre.
Discreto il giardiniere. Pure io che ho seguito quel profumo.
Procedevo spalle ai rumori sempre più lontani e quando credevo di essermi persa in un’ingarbugliata boscaglia senza senso, finii quasi per sbattere la faccia al cancello del giardino. E lì lo ritrovai, piegato sulle ginocchia, viso alla terra. Se non fosse stata la brillantezza della sua testa a palla da biliardo a ricordarmelo, era irriconoscibile. Mi sembrava cercasse qualcosa. Dopo una veloce mescolata ad un mucchietto di terra, lo vidi girarsi di lato a cercare con le mani nella sua borsa a tracollo. Non ci vedo un granché, sono tanto miope, ma dai gesti che faceva, capii che da lì dentro tirava fuori dei semi. L’azione meccanica faceva più o meno così: cercava, tastava il terreno, rovistava nella borsetta e piantava. Cercava, tastava il terreno, rovistava e piantava. E poi acqua, tantissima acqua. Lo fece almeno una decina di volte, senza fiatare, in assoluta concentrazione.
Dovetti trattenermi dal non chiamarlo, avrei voluto già essere tornata indietro per raccontare tutto, già mi immaginavo le facce dei colleghi. Mi trovai a tornare a passo lento ripensando a quel che avevo appena visto. Il tempo di arrivare e la voglia di parlare mi passò del tutto.La sua giornata la riempiva di chiacchiere e battute mal scongelate, senza mai stancarsi. Un giorno era uguale a quello prima, la ritmica dei suoi gesti non perdeva nemmeno un colpo. Ci intratteneva con storie strampalate, senza che qualcuno glielo chiedesse. Non sapevo mai se crederci o no. Alle sue battute rideva solo lui.
La cosa certa era che da anni stava lì al centro raccolta chiamate della ditta Saipe a spiegare procedure, risolvere problemi, ascoltare e calmare clienti logorati dal fax che non funzionava e da lì non si schiodava. Mai una promozione, né un particolare riconoscimento. Nemmeno una piega. Nemmeno l’ombra di una ruga. Ad ogni discussione tra colleghi, ad ogni accenno di tensione, la sua riposta era sempre un gran sorriso e occhi che brillavano. Non perdeva mai il controllo, la scelta di totale neutralità lo rendeva un essere talmente innocuo che quasi ti dimenticavi di averlo a fianco. Tanto da perderlo di vista. Ma ora si che sapevo dove andava ad infrattarsi. Mi bastava sentire quel profumo per capire che tra tutto quel marasma lui zitto zitto laggiù s’andava a defilare. I giorni passavano lenti nel grande open space popolato da un centinaio di stranieri emigrati nella città fredda.
In questo scenario abitato da giovani tra venti e trent’anni anni che passavano il tempo a dondolarsi su sedie dallo schienale reclinabile, sbracati su scrivanie, imbambolati al pc, mi appariva come una spruzzata di colore in tanto bianco e nero.
Tornai a visitare quel posto a distanza di anni, ne sentivo la mancanza, volevo rimettermi in contatto con qualcuna di quelle sensazioni. Ce l’avevo davanti agli occhi l’ingresso, il corridoio lunghissimo. Lo stanzone.
Scesi dal bus e mi misi a camminare. Un altro paio di minuti e girato l’angolo l’avrei visto quel cubo giallo spiccare su tutto il resto, che poi era il nulla di un vecchio e solitario quartiere industriale viennese. Arrivai.
Subito pensai di aver sbagliato strada o che si fossero tutti trasferiti altrove. D’altra parte, non avevo mantenuto il contatto con nessuno, poteva essere successo di tutto. Poi mano a mano che procedevo mi resi conto di non aver sbagliato affatto. Del cubo giallo nessuna traccia. O meglio, qualche traccia c’era, ma dello scheletro di un vecchio capannone occupato da stecchi, rami, alberi venuti su da tutte le parti. Pareva trafitto e strabordante di verde. Provai a capire.
Mi parlarono del fallimento dell’azienda, di una veloce e mal gestita chiusura, di gente lasciata a casa con pochi discorsi e qualche pacca sulla spalla e di questa impressionante crescita di vegetazione che nei giorni successivi aveva praticamente invaso tutta la zona e come avvolto il centro raccolta chiamate. Di fatto le radici degli alberi erano diventate talmente grosse e profonde da aver sollevato case e pezzi di strade limitrofe e quel nuovo pezzo di terra aveva assunto l’aspetto di una rigogliosa boscaglia selvatica. Allora cercai tra articoli di giornale qualcuno che parlasse della mia vecchia azienda. Tra i mille, a fatica ne trovai uno che ne facesse cenno, seppur alla lontana.
Vienna, 2007
Insolito risveglio per un migliaio tra abitanti e impiegati di Alten Burg, distretto industriale di Vienna. Uno scherzo della natura che non ha fatto tanto ridere chi ha dovuto segare rami per uscire di casa o strappare radici per liberare le ruote dell’auto, sepolta sotto un doppio strato di borragine. Il lavoro di stima quantitativa continua e proseguono le verifiche per gli edifici che hanno subito danni. Le immediate, fatte dalla protezione civile sono state già oltre il centinaio: il 36,1% degli edifici è risultato immediatamente agibile, il 22,5% temporaneamente o parzialmente inagibile, il 35,7% inagibile e il 5,7% inagibile per rischio esterno, ossia a causa di elementi esterni pericolanti il cui crollo potrebbe interessare l’edificio. Per le imprese si calcola una perdita di circa 6 milioni. Si tratta, soprattutto, di danni alle strutture e di spese necessarie per l’adeguamento dei capannoni. Una calamità naturale mai vista che aggiunge non poche questioni morali al dibattito uomo – natura.
La mobilitazione dei cittadini è sembrata fin da subito molto attiva. Particolarmente collaborativi alcuni tra gli ex dipendenti della ditta Saipe che proprio quella mattina avrebbero dovuto sgomberare gli uffici dell’azienda chiusa improvvisamente per bancarotta. Per loro, al danno si aggiunge la beffa di essere finiti in fondo alla lista delle priorità. Si stima un recupero di mesi, forse anni affinché il distretto possa riprendere l’aspetto di un tempo, ma non è difficile immaginare che i danni ne modificheranno irrimediabilmente le sembianze.
E così è stato.
Il distretto di Alten Burg si è ripreso nel tempo e così lo ritrovai quel giorno. Tutto sembrava aver riacquisito un suo ritmo regolare. Ma era il suo aspetto ad esserne stato completamente stravolto. Le strade non procedevano più a scacchiera, almeno non tutte. Con lo sguardo tentavo di trovare un ordine, un senso che spiegasse come potesse starci una quercia all’incrocio o una fila di cespugli all’uscita della metropolitana e tutti quegli orticelli a macchia, le viti, gli alberi di noci, ciliegi. C’era confusione e colore dappertutto.
Una spruzzata di colore in tanto bianco e nero.
Illustrazioni di Monica Gorla / Illustrations by Monica Gorla