Io, mamma lavoratrice, ce la voglio fare
Caro Beppe, ti scrivo in una domenica pomeriggio, il cui prezioso tempo in solitaria mi è stato regalato dal marito che ha accompagnato, da solo, la nostra primogenita ad una festa di compleanno. Salvata non a caso poiché dove c’è festa di compleanno, c’è tanta gioia… e ci sono anche tanti palloncini e io sono un raro caso di palloncino-fobica. (Le sto provando un po’ tutte, sono arrivata ai tappi per le orecchie, ma oggi ha prevalso la fobia). Colgo l’occasione e il pretesto per inserirmi all’interno del dibattito “Io, mamma lavoratrice, non ce l’ho fatta” rilanciando con “Io, mamma lavoratrice, ce la voglio fare” e ora provo a raccontarti come.
Sono Sara, una donna, con un marito, un lavoro, due figli, di 38 anni.
Sono una donna che ad un certo punto della sua strada ha incontrato e scelto l’uomo della vita. Mi sono innamorata di quello che stava dando a me e di tutto quello che intuivo avrebbe potuto dare ai miei (futuri) figli. Un uomo che mi raccontava più cose con la chitarra e i silenzi che a parole, peraltro non del tutto armoniche, perché l’uomo viene dal freddo, è austriaco. Non è stato semplice mettere assieme due culture così diverse, ma è stata ed è tutt’ora la nostra risorsa più grande, perché ci spinge continuamente a interrogarci sul nostro modo di porci, sulle nostre aspettative, sulle nostre diversità. Nel nostro caso la musica ci ha spianato la strada e ci ha fatto scivolare più rapidamente uno tra le braccia dell’altro e a tratti interviene ancora a mettere in ordine un po’ di cose tra noi.
Sono una lavoratrice, anzi, sono una che ha bisogno di lavorare per esprimersi, per dare tutti i giorni significato alla parola indipendenza e a sua sorella libertà, per contribuire con quello che posso alla creazione di qualcosa di buono, non necessariamente migliore, basta che sia buono. Ho un buon lavoro. Ci sono arrivata perché volevo proprio quello, dopo anni di precariato, di contratti a progetto conclusi così, senza tanti per come e perché, di co.co.co e pure una partita IVA di quelle finte, più varie ed eventuali in un mondo del lavoro che non è stato di particolare aiuto per la mia generazione, ma che mi ha consentito comunque di accumulare esperienze, conoscenze, network, fallimenti, successi e interminabili frustrazioni. E poter poi mettere tutto a frutto.
Ho due figlie, bellissime, femmine, ancora piccole abbastanza da assorbirci tutta l’energia che può rimanerci dopo una giornata di lavoro, ma tanto cariche da rigenerarci per il resto della nostra vita. Ci chiedono solo di amarle e di amarci, di rispettare noi stessi, di rispettare l’uno lo spazio dell’altro. Non ci chiedono il laboratorio di creatività, il corso di nuoto o quello di inglese a 4 anni. Al laboratorio di creatività mi sono iscritta io gratis da quando mi è nata la prima figlia, mi basta osservarla, il corso di nuoto lo facciamo col papà d’estate al mare col pattino e il corso d’inglese lo lasceremo fare alle maestre di scuola. E io e mio marito questo proviamo a fare, uno sostituibile all’altro. Si, perché nella lettera della mia collega mamma, mi è mancato un pezzo: ma il marito dov’è? Dove è scritto che dev’essere ancora e solo la mamma a rientrare a casa prima del marito da lavoro per organizzare la cena, il parco, il bagnetto e le coccole? Dove è scritto che quando una figlia è a casa malata, dev’essere la mamma a dover stare a casa, dov’è scritto che ai colloqui con le maestre o alle feste di compleanno devono andare le mamme? E perché? Io sono convinta che questo binario porti dritti verso stazione sfinimento, l’ultima stazione. Non so cosa sia peggio in termini di frustrazione, me lo sono chiesta tante volte, tra la scelta più antica o semi obbligata delle nostre madri di rinuncia al lavoro per crescere i figli e sopperire alla mancanza dei padri o quella più recente delle super mamme che possono fare tutto perfettamente, una scelta semi obbligata dal profilo facebook.
La verità è che da sola io non ce la potrei mai fare e non può c’entrare sempre il lavoro, lo Stato che non ci aiuta, i maschi, la società impazzita. C’entra la difficoltà di dirsi che possiamo meritarci un compagno migliore, un lavoro migliore, una vita migliore, per noi e per i nostri figli. La verità è che occorre imparare in fretta a chiedere e a delegare ai nostri uomini senz’altro meno performanti nel cambio pannolino, ma con parecchia voglia di imparare a fare anche un po’ la mamma e a riempire di colori nuovi il proprio alfabeto emotivo. Si può fare.
Ho 38 anni e con la mia seconda figlia ho appena iniziato la mia terza vita, perché ad ogni figlio ho cambiato ancora muta e ho rimesso in discussione schemi che si erano appena assestati e sono ripartita da capo non senza ammaccature. Ma posso sempre tornare a quel “noi”, a quell’io + tu che mi alleggerisce le fatiche e che mi fa fare anche quattro risate che da sola non mi viene tanto bene. Perché nessun uomo è un isola, ma qui rischio di farti venire il nervoso….
Ho 38 anni e ho tutta la vita davanti per contribuire a cambiarle alcune regole di questo mondo del lavoro e a battermi per questo, per me e per i figli che verranno.
p.s dico a mia figlia, tornata a casa dalla festa di compleanno: “che brava amore che non hai paura dei palloncini, mica come la mamma”, e lei, “mamma, ma non devi avere paura dei palloncini, i palloncini mica parlano…”.
e con così tanta filosofia vado a letto.
di Sara Tommasi
pubblicato sul Blog “Italians” di Beppe Severgnini il 28/9/2016